martedì 26 giugno 2012

Venegono Amarcord

Acquaforte di Ettore Antonini 

Venegono Inferiore (provincia di Varese) è il classico paesotto, tra il grigio e l’anonimo, perso tra le brume della «Padania», come ce ne sono molti. Uno dei tanti posti dove — nessuno si offenda! — non ti verrebbe mai in mente di mettere piede senza un ben precisa ragione. A giudicare dalle automobili di grossa cilindrata e dalle immancabili villette di recente costruzione, con annesso giardino e stratosferica antenna satellitare, il luogo sembra — almeno esteriormente — aver perso ogni traccia del suo millenario pedigree contadino, per trasformarsi nell’ennesimo «dormitorio di lusso», a un’ora di strada e di ferrovia da Milano. Qualche pretino, in missione per conto di Dio, scorrazza per le vie del centro storico, quattro case in tutto, salvo poi fare ritorno in gran fretta, prima del vespro, tra le mura del vecchio e imponente locale seminario. 

Ettore Antonini è un incisore e vive l’appunto a Venegono, dove è nato 58 anni fa e dove, mentre sono di passaggio, mi invita a trascorrere qualche ora in sua compagnia. Data l’amicizia che ci lega, acconsente di buon grado a farmi visitare il suo laboratorio, una specie di gioiosa Wunderkammer dove un disordine assolutamente voluto la fa da padrone. Le pareti traboccano di cinquecentine con legature di cuoio, di quadri senza cornice, cornici senza quadri, di santini colorati, di dagherrotipi sgualciti. Negli scaffali, alla rinfusa, scatole di cartone, bambole decollate, una radio fuori uso, automobiline, ragnatele futur-dadaiste. In un angolo, i ferri del mestiere: il torchio, la pressa, una sgorbia, bottiglie di acido, gli inchiostri, la cera. L’impressione che se ne ricava, a prima vista, è quella di esser capitati nel retrobottega di un Dottor Faust del XX secolo. 

E del resto — come ha detto una volta qualcuno — tra l’incisore e l’alchimista la differenza è poca o nulla. Entrambi, difatti, «manipolano la vil materia» per raggiungere in tal modo un fine più alto, che nel caso dell’incisore coincide con l’opera d’arte, nel caso dell’alchimista, nell’opera «in sé». Gira e rigira, in fondo alla strada, collocata al limitare di un bosco di pioppi e castagni, la casa di Ettore Antonini, che si affaccia su un cortile del ‘400. «La mia famiglia risiede a Venegono dalla notte dei tempi», mi spiega srotolando una pergamena ingiallita contenente il suo intricato albero genealogico. «Di cortili come questo, che servivano da stalle, in paese ce n’erano a bizzeffe, prima che li si lasciasse cadere in rovina». «Quando — continua — cominciai, per puro diletto, a incidere le mie prime lineolumgrafie, mi venne spontaneo partire da questi vecchi angoli dimenticati. Per me è stato come immortalare un piccolo mondo antico, il mio, prima che sparisse sotto il colpi del cosiddetto “progresso”». «Dopodiché, è stata la volta dei temi religiosi»; ed ecco che, in men che non si dica, mi squaderna sotto gli occhi stupefatti una cartella, in folio, di xilografie ispirate ai versetti della Genesi. 

Oltre il giardino, ci aspettano gli ex libris. Saliamo al piano di sopra. La biblioteca straripa di cataloghi in tutte le lingue. Li sfoglio e riconosco, senza difficoltà, gli argomenti prediletti dall’Autore: Peter Pan, Pinocchio, Pantagruele, Don Chisciotte, Alice, il Mago di Oz... Nell’ultima di copertina di una rivista specializzata, leggo il seguente giudizio di Remo Palmirani: «Antonini non ricade certo negli abusati e banali canoni dell’artista angosciato e fragile; è invece sanguigno ed estroverso, ma con una spiccata sensibilità e una istintiva curiosità intellettuale». Ormai si è fatto tardi. Ettore insiste per accompagnarmi alla Stazione Centrale di Milano. Ci salutiamo. Mentre salgo sul mio treno, intravedo un gruppo di giovinastri dalle chiome variopinte che, su un binario morto, armati di bombolette spray, approfittano della penombra per imbrattare un locomotore arrugginito. E pensare che la chiamano «arte»... 

Angelo Iacovella
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