L'aviatrice Amelia Earhart (1897-1937)
Ogni pilota degno di questo nome, mentre impugna dolcemente la cloche, librandosi tra le nuvole, guarda fisso l’orizzonte di fuoco che è dentro di sé. Amelia sapeva, sin dall’inizio, che la sua morte avrebbe sfoderato la faccia e le ali di cera di un Icaro in avaria. Questo non la trattenne, beninteso, dall’attraversare l’Atlantico, con il vento a favore, a bordo di un Fokker F7. Ci impiegò, se non ricordo male, 21 ore e un pugno di minuti.
Correva l’anno 1928 e agli Americani, con in testa il presidente Calvin Coolidge, al suo trionfale ritorno dall’Inghilterra, non parve vero di poterle affibbiare lo scettro di «Signora dei Cieli». Ma la sua specialità era il volo solitario. Nel 1935, da Honolulu a Oakland, California, con beata incoscienza, mentre il suo matrimonio andava letteralmente in pezzi, consolidò il primato. C’è gente, specialmente in Kansas, che in cuor suo non si è mai rassegnata all’idea che un mito dell’aeronautica come Amelia Earhart possa aver fallito. Ai più non dispiace pensare che, quella mattina di luglio del 1937, prima che precipitasse nel Pacifico, mentre dalla radio del suo biplano partivano segnali di soccorso, un qualche Dio, con il pallino dell’aviazione, si sia intenerito alla vista di un casco di boccoli biondi.
Per oltre un mese, la marina degli Stati Uniti fu – senza esito – incaricata di setacciare la zona, alla disperata ricerca dei rottami dell’aereo. La lasciarono in pace quando un ammiraglio, stanco di cercare l’ago nel pagliaio, mise in giro la voce che era stata rapita dai Giapponesi.
Angelo Iacovella