La sera del 3 ottobre 1849 il dottor Snodgrass, medico generico di Baltimora, si vide recapitare nel suo studio privato un frettoloso appunto, il cui testo recitava pressappoco così: «C’è un tale, nel quarto rione, che dice di conoscervi. Si chiama Edgar Poe; versa in uno stato miserabile e sembra in balia della più nera disperazione».
Seminudo e completamente ubriaco, il grande scrittore, dopo aver girovagato senza meta apparente per le vie della città, era caduto privo di sensi nelle vicinanze di un seggio elettorale. Qualcuno, vedendolo tanto malconcio, pensò si trattasse del solito barbone o vagabondo di turno, trascinatosi lì per votare. Tradotto d’urgenza nel più vicino ospedale, dopo una lunga e dolorosa agonia, alle ore 3 antimeridiane del 7 ottobre, lo sventurato, in preda al delirio, rese l’anima al Creatore. Di lì a poco, se fosse riuscito a sopravvivere alla tremenda prova, Edgar Allan Poe avrebbe superato la boa dei quarantuno anni.
«Emorragia cerebrale»: questa, almeno secondo il referto stilato dai medici, la causa più probabile e scatenante del decesso. Una spiegazione scientifica e «ufficiale», va da sé, che — nel caso di Poe — non sarebbe bastata a sopire le tante illazioni destinate inevitabilmente a fiorire circa la di lui tragica e misteriosa dipartita. La triste «spettacolarità» dell’accaduto fece il resto e contribuì non poco ad accrescere, intorno allo sfortunato autore de "Il Pozzo" e "Il Pendolo", la fama di «tenebroso», alimentandone a dismisura la leggenda.
Ora, a circa un secolo e mezzo da quella data, molti accademici, specie americani, si sono «avventati», ci si passi l’espressione truculenta, sul ghiotto anniversario. La cittadina di Richmond (Virginia), per l’occasione, ha organizzato un’importante conferenza internazionale, alla quale hanno preso parte i maggiori specialisti e biografi. Tra le varie relazioni al convegno, particolare scalpore (in senso positivo) ha suscitato quella dello studioso Albert Donnay, ricercatore di letteratura in forza, per l’appunto, presso la «John Hopkins School» di Baltimora: tra gli applausi dei presenti, ha avanzato una sua, «originale» è dire poco, ipotesi su Poe e sui «veri motivi» che ne avrebbero provocato la strana e prematura scomparsa.
Sino ad oggi, a torto o a ragione, in assenza di riscontri decisivi, si pensava che le gravi condizioni del poeta, fisiche e mentali, derivassero dal trauma subìto in seguito alla morte della moglie, avvenuta nel 1847. Questa tesi sarà sembrata, ne siamo certi, troppo leziosa e «romantica» all’ineffabile ricercatore universitario americano, il quale, dal canto suo, è arrivato alle seguenti conclusioni: Edgar Allan Poe sarebbe stato ucciso da una «prolungata esposizione al monossido di carbonio emesso dalle illuminazioni a gas della sua epoca». Quali le prove portate dal, ripeto, ineffabile Donnay a conforto di questa sua geniale intuizione? Niente di più e niente altro che «gli scritti dell’autore», dove — sentite questa! — abbondano «le descrizioni di sintomi legati all’avvelenamento da gas», quali «lo stato di affaticamento cronico», l’«ipersensibilità sensoriale» e — dulcis in fundo — l’«impotenza».
Che dire, a questo punto, di noi poveri e ingenui lettori, che, non essendo degli specialisti, abbiamo sempre fatto risalire la «ipersensibilità» di Poe a quel suo essere — semplicemente — un «artista», un animo nobile e afflitto, schiacciato dal peso di un’esistenza grama? Ci siamo sbagliati, ammettiamolo. La letteratura non è il prodotto dello Spirito, bensì il risultato di effluvi maleodoranti e velenosi.
Sino ad oggi, a torto o a ragione, in assenza di riscontri decisivi, si pensava che le gravi condizioni del poeta, fisiche e mentali, derivassero dal trauma subìto in seguito alla morte della moglie, avvenuta nel 1847. Questa tesi sarà sembrata, ne siamo certi, troppo leziosa e «romantica» all’ineffabile ricercatore universitario americano, il quale, dal canto suo, è arrivato alle seguenti conclusioni: Edgar Allan Poe sarebbe stato ucciso da una «prolungata esposizione al monossido di carbonio emesso dalle illuminazioni a gas della sua epoca». Quali le prove portate dal, ripeto, ineffabile Donnay a conforto di questa sua geniale intuizione? Niente di più e niente altro che «gli scritti dell’autore», dove — sentite questa! — abbondano «le descrizioni di sintomi legati all’avvelenamento da gas», quali «lo stato di affaticamento cronico», l’«ipersensibilità sensoriale» e — dulcis in fundo — l’«impotenza».
Che dire, a questo punto, di noi poveri e ingenui lettori, che, non essendo degli specialisti, abbiamo sempre fatto risalire la «ipersensibilità» di Poe a quel suo essere — semplicemente — un «artista», un animo nobile e afflitto, schiacciato dal peso di un’esistenza grama? Ci siamo sbagliati, ammettiamolo. La letteratura non è il prodotto dello Spirito, bensì il risultato di effluvi maleodoranti e velenosi.
Angelo Iacovella