Un volto, un racconto
«England is the only country where I never feel at home». Richard F. Burton, viaggiatore e grande orientalista, non aveva troppi peli sulla lingua quando si trattava di sbertucciare gli Inglesi, suoi compatrioti. Troppo esangui e bigotti, del resto, per incontrare il favore di uno dei più scapestrati giramondo dell’Ottocento. Uomo dalle mille vite, il nostro Burton. Conoscitore di una quarantina di lingue, traduttore dal testo originale arabo integrale de "Le Mille e una Notte" e anche del "Kamasutra" indiano, esploratore, della sua effigie non ci restano che sparuti dagherrotipi e un bell’olio di Frederic Leighton (ora conservato alla National Gallery).
Il suo ritrattista, al quale — secondo la leggenda — si era rivolto con un beffardo “Fatemi bello!”, dovette sudare le classiche sette camicie. Sir Burton non era, infatti, quello che si dice un damerino. Anzi. In uggia alle manie cicisbee di certi suoi aristocratici colleghi, amava indossare un liso cappotto nero di foggia militare, che non cambiava quasi mai. Lunghi baffi, non sempre curati, gli incorniciavano il mento, conferendogli un’aria un po’ sinistra, da brutto e navigato ceffo. Sulla guancia sinistra, una lunga e profonda cicatrice: ricordo indelebile di un incontro, alle sorgenti del Nilo, con un locale armato di lancia e non troppo benevolo nei suoi confronti.
Tra le imprese di Richard F. Burton, la più mirabile — e memorabile — resta, senza dubbio, il suo riuscito pellegrinaggio alla Mecca, per compiere il quale, in barba al divieto imposto dalla legge islamica, si camuffò da pio musulmano assumendo il falso nome di Mirza Abdullah.
Pubblicò più di settanta volumi, tra saggi e versioni, che ne alimentarono il mito. E non c’era fanciulla inglese di buona famiglia che non avesse almeno sfogliato, di nascosto da occhi indiscreti, le pagine più scabrose del suo "Giardino Profumato", una raccolta di poesie erotiche orientali che scandalizzò i benpensanti dell’epoca. Tra i quali — purtroppo — militava la cattolicissima “chioccia” Isabel Arundell, colei che sarebbe diventata, di lì a poco, Lady Burton.
Perché un genio dell’anticonformismo come Burton abbia deciso di contrarre matrimonio con una donna dall’orizzonte mentale (e spirituale) degno della peggior beghina vittoriana non è dato sapere. Misteri dell’amore, certo, che è cieco per definizione. Peccato che qualche maligno biografo, da cui abbiamo attinto, non la pensi così. Il “libertino” Burton si sarebbe deciso a impalmare una delle timorate e rispettabili figlia della buona borghesia londinese per mettere a tacere le troppe voci che lo descrivevano come incline al “turpe vizio”. Una moglie siffatta gli assicurò — se non altro — una vecchiaia tranquilla, al riparo da fastidiosi pettegolezzi che — comunque — c’è da presumere che non gli abbiano mai fatto soverchia impressione.
Trascorse gli ultimi diciotto anni della sua vita in un palazzo signorile di Trieste, oggi noto come “Villa Economo”, in qualità di incaricato d’affari del governo di Sua Maestà. Qui, nella notte tra il 19 e il 20 ottobre del 1890, vittima di una crisi cardiaca, il Nostro spirò tra le braccia della sua disperata consorte. Disperata e preoccupata — a dire il vero — più la sua reputazione che per la salute del marito. Questi, da agnostico impenitente, si era guardato bene dal chiedere i conforti di un qualche sacerdote. Lady Burton — fresca vedova — ebbe la sfacciataggine di costringere un prete del luogo a impartire l’estrema unzione al marito che era già bello che spirato da almeno tre ore.
Non paga di ciò — cosa questa più grave e imperdonabile — si chiuse in casa per diciotto, dico diciotto giorno, e si dedicò a distruggere sistematicamente tutte le carte del marito: abbozzi di libri, carteggi, diari di viaggio, da cui — forse — qualche studioso, un giorno, avrebbe desunto le prove della — latente o patente — omosessualità del marito. Il danno recato alle lettere e agli studi orientali si rivelò enorme. Ampie volute di fumo furono viste volteggiare a Trieste, sopra il giardino di casa Burton, per quasi tre settimane. Si calcola che circa quarantamila pagine — dico: quarantamila — siano andate in cenere per salvare — in nome di un prurito perbenista — la reputazione postuma di un uomo a cui della reputazione, in fin dei conti, non importava molto.
Angelo Iacovella